La gratitudine è il motore delle relazioni umane sane, uno scambio di reciproca stima, e la si percepisce con i fatti, gli atteggiamenti e con le parole.
Quando il “grazie “ non arriva può essere irritante.
Ho in mente tuttavia una situazione in cui il riconoscimento di un lavoro ben fatto non si manifesta con la parola “grazie” ma proprio tramite la sua omissione.
Il mio quotidiano lavorativo è abbastanza faticoso: devo affrontare temi ostili inerenti la matematica, con ragazzi che hanno disturbi specifici dell’apprendimento o, come accade ogni tanto, anche problemi cognitivi. Dopo molto lavoro da entrambe le parti, mio e del mio allievo, arriva il tanto agognato: “Ce l’ho fatta!”
Il bimbo esulta soddisfatto perché ha capito un argomento, un passaggio, un ragionamento, e quell’istante ripaga di tutti i sacrifici fatti.
Io, dal mio lato della scrivania, gioisco del meritato successo, faccio complimenti, creo le basi per la costruzione di una nuova autostima, più positiva e solida.
Il risultato raggiunto è di entrambi, l’obiettivo era condiviso, lo sforzo era comune, ma è soltanto lui che “ce l'ha fatta” in quel preciso momento.
E non deve dire “grazie” a nessuno.
Deve interiorizzare la sensazione di riuscire, anche nelle sfide più difficili, indipendentemente dall’aiuto esterno, autonomamente, nonostante l’iniziale presenza del tutor.
Deve imparare a pretendere da se stesso il risultato, sebbene parta da situazioni poco vantaggiose.
Mi ritrovo così a provare soddisfazione per aver generato con il mio lavoro una scintilla di buon umore, per aver tolto un peso dal cuore di un bimbo che sovente si sente inadeguato.
In ogni caso i “miei bambini” trovano il modo di mostrarmi affetto per essere stata loro accanto nei momenti difficili.
Capita che pensino proprio a me di ritorno da una gita scolastica e che comprino un dolcetto da regalarmi alla prima occasione.
Che sapore!
Bella questa visione del "grazie"
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