Qualche sera fa ho assistito a un concerto Candlelight. L’atmosfera era perfetta: luci soffuse, candele a centinaia, silenzio attento da parte del pubblico. Sembrava l’occasione ideale per lasciarsi trasportare dalla musica.
Purtroppo però, nel momento stesso in cui è iniziata la performance, molte cose non sono andate come speravo.
Ho sentito un arrangiamento musicale dissonante, privo di armonia, senza struttura: i due violini e la viola portavano avanti le stesse note e il violoncello pareva non voler cedere spazio ai tre strumenti antagonisti. Nessuna coerenza tra gli strumenti o cura nei passaggi. Nessuna alternanza di voci.
Anche il tecnico del suono non ha svolto adeguatamente il suo compito, si è limitato ad accendere e spegnere il microfono, senza regolare i volumi. Alcune voci erano soffocate, altre gracchiavano dalle casse, posizionate peraltro troppo vicino agli spettatori. Il risultato è stato un’esperienza stonata, sbilanciata, fastidiosa, nonostante le buone premesse e la predisposizione a vivere un’ora di bellezza.
È mancata la maestria, la tecnica, l'impegno, sia quello nell'immediato che ha preceduto il concerto, sia quello passato nell'apprendimento del proprio mestiere.
La tecnica, quando manca, si sente.
Stona anche quando tutto il contorno è perfetto.
E così ho ripensato alle mie scale. Non quelle dei luoghi dei concerti, ma quelle studiate e ripetute ogni giorno al pianoforte, quelle che si percorrono ottava dopo ottava, con ordine e precisione. Accanto agli arpeggi, rappresentavano un riscaldamento muscolare ma anche mentale. Un modo per sintonizzare il mio metronomo interno, per sentire il peso del braccio, la flessibilità del polso, la qualità del tocco, l’accento su una mano o sull'altra.
Allenavo la tecnica per preparare l’anima all’espressione.
Perché il colore delle battute, la morbidezza del "piano", la forza controllata del "forte", la danza del martelletto sulle corde… tutto prendeva vita solo se la tecnica era al servizio dell’intenzione.
È la stessa cosa che deve accadere nell’insegnamento.
Posso insegnare con empatia solo se padroneggio la tecnica.
Posso sostenere chi ha difficoltà solo se conosco la disciplina e, con il tempo, anche il "funzionamento" del mio studente.
Posso comprendere davvero un errore solo se vado oltre la superficie dell’argomento e ne afferro il senso, la logica, la costruzione interna alla mente del mio allievo.
La tecnica è un mezzo.
È ciò che permette alla sensibilità di essere utile, e non solo presente.
È la base su cui costruire un’interazione autentica, efficace, rispettosa.
Ed è anche ciò che consente di restare flessibili, di salire o scendere con l’altro lungo la scala, adattandosi al suo passo, senza perdere il ritmo.
Il trasporto emotivo si manifesta adeguatamente soltanto se supportato dalla tecnica. Non facciamo l'errore di insegnare con il cuore trascurando il contenuto: ciò che ci tornerebbe sarebbe un risultato deludente e disarmonico.
Quindi buon lavoro, qualsiasi cosa stiate facendo!
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