Passa ai contenuti principali

Apriamo gli occhi!


Passeggiavo con i miei bassotti, più pensierosa del solito. Testa china attenta ad ogni passo.

La strada che costeggia il lato est della mia casa è sempre affollata di persone che camminano con i loro cani, che corrono inseguendo la forma fisica perfetta, che passeggiano spingendo passeggini o ancora pedalano tra il profumo di alberi e cespugli di erbe aromatiche.

Tutti salutano con un sorriso, anche quelli che sono al telefono con le cuffie, anche quelli che lo fanno a bassa voce per non svegliare il bimbo addormentato, anche quelli con il fiatone. Proprio tutti! Anche se non conoscono nessuno.

Quel giorno per me erano ombre non molto definite ma anche le ombre salutavano e io ricambiavo, intenta nello sforzo di riconoscere un volto dai gesti della mano. Quasi impossibile.

Alcuni avranno pensato che io fossi sulle mie, anche perché non sorridevo per niente intenta com’ero ad osservare i miei passi e a proteggere gli occhi dal troppo sole.

Altri, quelli che mi conoscono meno, avranno pensato che io fossi una maleducata come tante, una scontrosa donna di 50 anni che ama più i propri cani che gli essere umani.

Non è così.

Io non vedevo bene a causa delle gocce di atropina che un infermiere aveva messo nei miei occhi per dilatare le pupille e poter entrare nel mio mondo. Il mio universo di colori, perfetto, a dieci decimi da una vita, era momentaneamente in sospeso per permettere la diagnosi dell’oculista. 

Un pomeriggio e poi tutto sarebbe tornato come prima, avrei riconosciuto nuovamente i volti delle persone che incontravo e avrei salutato cordialmente.

E invece non è proprio così: resteranno delle zone che non vedrò bene fin quando il mio cervello, ancora plastico, si spera, non sarà in grado di sostituire il buco visivo dell’occhio destro con l’immagine vista dall’occhio sinistro.

Sono qui che aspetto che accada ormai da più di una settimana e la situazione non accenna a migliorare, vedo sempre a dieci decimi ma tutta questa precisione è per guardare una macchia bella grande davanti all’occhio destro che il mio cervello non vuole eliminare.

Ho paura. Paura che si aggravi qualcosa, paura che resti tutto così.

Ma so che nessuno ormai pensa che io sia maleducata perché in quel pomeriggio ho imparato a dire che non ci vedevo e molti si offrivano di aiutarmi o perlomeno comprendevano il mio disagio.


Ho paura. Conosco un po’ meglio la paura.

E capisco un po’ di più anche la paura dei miei bimbi nella loro prima settimana di scuola. Devono affrontare un nuovo anno di studio, un nuovo cammino, quello che per molti dei loro compagni è poco più di una passeggiata ma che per loro sembra una scalata piena di insidie.

I miei bimbi hanno un disturbo di apprendimento che limita una specifica capacità. Ma vengono presi per pigri, stupidi, incapaci, come io venivo vista come maleducata.

A me è bastato spiegare il problema e sono stata compresa, giustificata e talvolta aiutata.

Loro hanno certificati che spiegano a chi non sa ma sono pochissime le persone che vogliono leggere e comprendere.

Si potrebbe dire che il motivo è che molte persone non conoscano bene i disturbi di apprendimento ma allora devo pensare che tutte le persone incontrate il pomeriggio che non vedevo avessero una specializzazione in oculistica? Ne dubito.

Piuttosto penso che sia più semplice immaginare la vita di un non vedente anziché quella di un dislessico.

E allora ancora una volta insisto: non ero maleducata e loro non sono stupidi.

Apriamo gli occhi!

( e confidiamo anche sulla loro capacità di compensare, sul loro cervello plastico, sicuramente molto più capace del mio di adattarsi alle difficoltà.

...ma questa è un'altra storia...)



 

Commenti

Post popolari in questo blog

i nodi

Amavo correre con il vento in faccia, libera, selvatica. Io, mio fratello e i miei due cugini andavamo giù dalla ripa e poi ci dondolavamo tra le liane che scendevano giù dagli alberi. Non temevamo nulla, nessun animale, nemmeno i ragni che affollavano qualche tana abbandonata. Ogni anfratto era un nascondiglio, un posto in cui arrivare per primi. Mio nonno, un uomo buono, con il viso spigoloso scavato dalle rughe, per tenerci vicini a casa ci raccontava del vigile Giuseppe, pronto a fare multe salatissime ai bambini monelli. Penso che il vigile Giuseppe sia nato quando io avevo circa 5 anni, il giorno in cui ho fatto un capriccio di troppo per mangiare la verdura. Ed è vissuto nei nostri racconti, per una decina d'anni fino all'età della meritata pensione. Senza alzare un dito o emettere un suono, senza mai esistere veramente, è riuscito a tenere a bada 4 bambini scatenati. La divisa, il fischietto argentato dal suono mai udito non erano da sfidare. E ancora og

vincenti diversi

Mi alzavo presto la mattina e preparavo la colazione: uova, spremuta di arancia e caffè, la colazione dello sciatore. Il caffè lo bevevo io, che non sciavo. Le uova e la spremuta erano per Matteo, mio figlio, che sciava. Era in una squadra preagonistica…o come diceva lui a cinque anni: “Faccio Agonia”. E per me, che non sono una sportiva, si trattava di una vera agonia. Non ho spirito agonistico, non mi piace gareggiare, nemmeno partecipare. Ma mi piace vincere. Mi piace faticare, lottare e vincere. Non nello sport. In altre cose della vita. Forse a voi piace lo sport ma, si sa, siamo tutti diversi. In una cosa però siamo tutti uguali: ci mettiamo in gioco con tutte le nostre forze in qualcosa in cui crediamo o, meglio, in cui crediamo di poter vincere. Un’altra cosa in cui forse siamo tutti un po’ simili è che alla maggior parte di noi piace immedesimarci nelle storie che sanno di fatica, impegno ma infine vittoria. Ed è la storia di Giulio che in questo momento ci appassi

I "grazie " non detti

La gratitudine è il motore delle relazioni umane sane, uno scambio di reciproca stima, e la si percepisce con i fatti, gli atteggiamenti e con le parole. Quando il “grazie “ non arriva può essere irritante. Ho in mente tuttavia una situazione in cui il riconoscimento di un lavoro ben fatto non si manifesta con la parola “grazie” ma proprio tramite la sua omissione. Il mio quotidiano lavorativo è abbastanza faticoso: devo affrontare temi ostili inerenti la matematica, con ragazzi che hanno disturbi specifici dell’apprendimento o, come accade ogni tanto, anche problemi cognitivi. Dopo molto lavoro da entrambe le parti, mio e del mio allievo, arriva il tanto agognato: “Ce l’ho fatta!”  Il bimbo esulta soddisfatto perché ha capito un argomento, un passaggio, un ragionamento, e quell’istante ripaga di tutti i sacrifici fatti. Io, dal mio lato della scrivania, gioisco del meritato successo, faccio complimenti, creo le basi per la costruzione di una nuova autostima, più positiva