Passa ai contenuti principali

il mio supereroe



https://emozioni.ch/digitale.php

La sua manina stava tutta nella mia e la pelle morbida come quella del viso aveva un profumo dolce di bimbo, il mio. Controvoglia ogni tanto gli accorciavo i capelli rinunciando ai suoi boccoli dorati e sottili che sapevo bene non sarebbero durati ancora per molti anni, la crescita li avrebbe cambiati. Aveva avuto sin dal primo giorno di vita una ciocca nerissima, proprio al centro della testa, che con il passare del tempo è precocemente imbiancata, come se un pezzetto minuscolo della sua mente fosse maturato con largo anticipo rispetto ai suoi coetanei. Ho sempre immaginato di potermi rivolgere a lui per ottenere un punto di vista non banale, critico, in qualche occasione profondo. Molto spesso le mie aspettative non sono state deluse. Forse l’ho caricato di una responsabilità per cui è stato costretto ad adeguarsi al ruolo di adulto precoce, o magari il fatto di appoggiarmi a lui era una semplice conseguenza della sua affidabilità che come mamma ho sempre percepito. Comunque, alla fin fine io e il mio bimbo abbiamo sempre parlato e comunicato molto liberamente senza mai trascurare il mio ruolo di madre e la sua posizione di figlio. Mi sono riscoperta pittrice quando imbrattavamo le pareti foderate di carta lungo tutto il salone con i colori a dito e ho imparato a cucinare e impiattare al meglio per contrastare la sua ostilità alle verdure. Non ho mai amato giocare con i giocattoli perché non ne sono capace, mi stufo in fretta ma so volare con la fantasia, questo sì, e magari dopo aver guardato un film o un cartone animato insieme recitavamo la parte degli eroi per tutto un pomeriggio, anche mentre svolgevo le faccende di casa. Quanti abbracci morbidi e quanti combattimenti contro nemici immaginari! Il più delle volte lui era Spiderman, la tutina rossa e le braccia sottili che roteavano accompagnate da strani rumori di sottofondo che giungevano dalla testolina incappucciata. E io gli ripetevo la frase più famosa: “Da grandi poteri derivano grandi responsabilità” Sono sicura che se ci fosse stato un mostro in quel momento, nella nostra cucina o nella cameretta, lui l’avrebbe affrontato con coraggio, convinto di esserne in grado per via dei superpoteri ma soprattutto per la responsabilità che derivava dal fatto di essere Spiderman, un supereroe. Qualche volta sono stata io il supereroe, quando al pronto soccorso aveva paura dell’ago e del dolore dei punti io gli ho offerto il mio braccio incoraggiandolo a passarmi tutto il suo dolore stringendomi forte, più forte che poteva, fino a farmi male, perché io ero una mamma dotata dei superpoteri che hanno tutte le mamme, quello di essere immune alla sofferenza fisica quando c’è un figlio che ha bisogno di aiuto e dicendogli ancora che da questo grande potere derivava la mia responsabilità di proteggerlo. Era così che doveva essere e così è stato. Il tempo è passato, un paio di decenni, e ora mi ritrovo un ragazzo giovane, un mondo difficile intorno a lui, a tutti noi. Mi ha raccontato, come se stesse parlando di un altro bambino e non di se stesso, che quel giorno al pronto soccorso non aveva avuto poi tanto male. Io ho risposto che il mio superpotere di mamma aveva funzionato a dovere, non lasciando spazio a nessuna conclusione razionale che potesse in qualche modo sminuire l’efficacia del credere nella nostra consueta lettura degli eventi, anche a vent’anni di distanza. “Da grandi poteri derivano grandi responsabilità” era stato sempre il nostro motto (in tono scherzoso ma nemmeno poi tanto). L'altro giorno però mi sono arresa, ho dovuto. Ho visto la sua maturità manifestarsi con fermezza. Eravamo al telefono che riflettevamo sul senso di responsabilità e lui, con voce profonda, ormai lontana dagli striduli suoni dell’adolescenza, mi ha detto che la nostra frase di Spiderman poteva, anzi, doveva essere letta al contrario: “Soltanto prendendo atto della propria responsabilità si può esercitare il proprio potere”. Potere e quindi responsabilità assumono un nuovo significato se invertiamo l’ordine delle parole. Mille sono le difficoltà che ognuno di noi deve affrontare e lui, nella sua breve esperienza, ha già potuto toccare con mano come il farsi carico delle responsabilità porti sostanzialmente al risultato sperato. Ricordo il giorno in cui ha dovuto superare un esame di informatica, forse uno dei primi, totalmente indifeso e ancora senza una chiara visione delle proprie risorse. Per sua sfortuna ha dovuto cambiare ben due volte la postazione a causa di un cattivo funzionamento del computer senza poter sperare di recuperare il tempo perduto a scapito del buon esito della prova. Arrivato a casa ha ripetuto due volte che non era sicuro di come fosse andato l’esame per via di quel guasto. Una di troppo… Mio malgrado ho dovuto fermarlo, non gli ho permesso di andare oltre con i lamenti. Continuare a pensare alla sfortuna sicuramente gli aveva rubato energie e pensieri in sede di esame. Reputavo necessario insegnargli che la sua attenzione doveva rimanere focalizzata sulla prova e non sugli eventi avversi. Era suo obbligo prendersi la totale responsabilità del risultato e lavorare con ciò che aveva a disposizione, uno strumento inefficiente e meno tempo del previsto. Da questo sarebbe derivato il suo potere di concludere in modo efficace il lavoro. Il suo senso di responsabilità e il suo potere. Ma anche la mia responsabilità di genitore e quindi il mio potere di spronarlo in una situazione difficile anziché coccolarlo come avrei voluto fare assecondando il mio istinto. Al termine di queste righe mi soffermo su un’ultima, breve, riflessione: il senso di responsabilità è ciò che impariamo ad accogliere con la maturità, quando riusciamo a livello razionale a distaccarci dall’istinto, a ciò che il singolo momento ci spinge a fare senza un occhio alle conseguenze. Valutare razionalmente una situazione e prevederne una conclusione danno ad ognuno di noi la capacità di guidare le nostre azioni e quindi realizzare la nostra visione. Un uomo che si abbandoni all’istinto agirà trascinato dagli eventi senza alcun potere su di essi.


Commenti

Post popolari in questo blog

i nodi

Amavo correre con il vento in faccia, libera, selvatica. Io, mio fratello e i miei due cugini andavamo giù dalla ripa e poi ci dondolavamo tra le liane che scendevano giù dagli alberi. Non temevamo nulla, nessun animale, nemmeno i ragni che affollavano qualche tana abbandonata. Ogni anfratto era un nascondiglio, un posto in cui arrivare per primi. Mio nonno, un uomo buono, con il viso spigoloso scavato dalle rughe, per tenerci vicini a casa ci raccontava del vigile Giuseppe, pronto a fare multe salatissime ai bambini monelli. Penso che il vigile Giuseppe sia nato quando io avevo circa 5 anni, il giorno in cui ho fatto un capriccio di troppo per mangiare la verdura. Ed è vissuto nei nostri racconti, per una decina d'anni fino all'età della meritata pensione. Senza alzare un dito o emettere un suono, senza mai esistere veramente, è riuscito a tenere a bada 4 bambini scatenati. La divisa, il fischietto argentato dal suono mai udito non erano da sfidare. E ancora og

vincenti diversi

Mi alzavo presto la mattina e preparavo la colazione: uova, spremuta di arancia e caffè, la colazione dello sciatore. Il caffè lo bevevo io, che non sciavo. Le uova e la spremuta erano per Matteo, mio figlio, che sciava. Era in una squadra preagonistica…o come diceva lui a cinque anni: “Faccio Agonia”. E per me, che non sono una sportiva, si trattava di una vera agonia. Non ho spirito agonistico, non mi piace gareggiare, nemmeno partecipare. Ma mi piace vincere. Mi piace faticare, lottare e vincere. Non nello sport. In altre cose della vita. Forse a voi piace lo sport ma, si sa, siamo tutti diversi. In una cosa però siamo tutti uguali: ci mettiamo in gioco con tutte le nostre forze in qualcosa in cui crediamo o, meglio, in cui crediamo di poter vincere. Un’altra cosa in cui forse siamo tutti un po’ simili è che alla maggior parte di noi piace immedesimarci nelle storie che sanno di fatica, impegno ma infine vittoria. Ed è la storia di Giulio che in questo momento ci appassi

I "grazie " non detti

La gratitudine è il motore delle relazioni umane sane, uno scambio di reciproca stima, e la si percepisce con i fatti, gli atteggiamenti e con le parole. Quando il “grazie “ non arriva può essere irritante. Ho in mente tuttavia una situazione in cui il riconoscimento di un lavoro ben fatto non si manifesta con la parola “grazie” ma proprio tramite la sua omissione. Il mio quotidiano lavorativo è abbastanza faticoso: devo affrontare temi ostili inerenti la matematica, con ragazzi che hanno disturbi specifici dell’apprendimento o, come accade ogni tanto, anche problemi cognitivi. Dopo molto lavoro da entrambe le parti, mio e del mio allievo, arriva il tanto agognato: “Ce l’ho fatta!”  Il bimbo esulta soddisfatto perché ha capito un argomento, un passaggio, un ragionamento, e quell’istante ripaga di tutti i sacrifici fatti. Io, dal mio lato della scrivania, gioisco del meritato successo, faccio complimenti, creo le basi per la costruzione di una nuova autostima, più positiva