Ricordo perfettamente il rumore del gessetto sulla lavagna. Quel suono secco, veloce, quasi impaziente. La maestra usciva dalla classe per andare dal preside o da una collega e lasciava a uno di noi il compito di dividere la lavagna in due: i buoni da una parte, i cattivi dall’altra. Bastava un’azione, una parola fuori posto, un gesto non controllato per finire nel lato sbagliato. E io, che ero diligente, che ci tenevo tanto ad essere dalla parte dei buoni, ero sempre dal lato giusto.
Con le mie azioni esprimevo un comportamento controllato.
Decidevo come volevo essere e lo ero.
Quella linea di gesso separava non solo la classe, ma anche il modo in cui vedevamo noi stessi. Io ero una bimba che si comportava bene. Ben inserita nel contesto.
Con il passare degli anni però, nonostante una timidezza non esasperata, una insicurezza addomesticabile, ho imparato a temere il gruppo, a non sopportare a lungo le comitive, non per ciò che avrei potuto fare per essere spostata nel gruppo dei cattivi ma ciò che avrei potuto dire.
Una dinamica comune a tutti ma che in me risulta oltre la mia stessa capacità di tolleranza, forse per la frequenza.
“Ma come ho fatto a dire proprio quella cosa?!”
E mi ritrovo, dopo quella frazione di secondo incontrollata, a rinchiudermi nel mio guscio. Meglio sola.
C’è qualcosa di sottile e doloroso nel rendersi conto di aver detto una frase inopportuna, che potrebbe aver creato sofferenza in un'altra persona.
Il momento in cui percepisco un vuoto, un’incertezza, una fragilità nell’altro e, invece di fermarmi, mi ci butto dentro, cercando di esplorarlo, di capirlo, è un istante, veloce e incontrollabile.
Una bomba che esplode e fa male. Ad entrambe le parti.
L’impulsività, il bisogno di intervenire immediatamente su ciò che percepisco come un’incognita… tutto questo mi appartiene profondamente.
E mi colpisce il dispiacere che ne segue. Quell’incredibile peso del “perché l’ho detto?”, il rimuginare per ore, giorni, su una frase che doveva essere evitata.
Impulsività e poi dispiacere e vergogna. Forse ho una lieve forma di ADHD non diagnosticata? Non so.
E poi mi chiedo ancora…se a 53 anni posso razionalizzare, seppur con fatica, il mio comportamento, come può farlo un bambino con ADHD?
Immagino quei bambini pieni di energia, immersi in un ambiente sovraccarico di stimoli, che vedono e sentono tutto, ma non sempre riescono a filtrare. Li immagino agire o lanciarsi in conversazioni senza pensare alle conseguenze, accorgersi troppo tardi di aver ferito qualcuno e poi rimanere intrappolati in un vortice di rimorso e dispiacere.
Sulla lavagna sarebbero sempre dalla parte dei cattivi.
Non possiamo fingere che gli errori non esistano, né possiamo sminuirli come qualcosa di privo di conseguenze.
Gli errori ci definiscono perché sono la traccia della nostra fragilità, ma non ci inchiodano a un’identità fissa, immutabile. Non siamo il nostro peggior momento, così come non siamo solo il nostro meglio.
Accettare questa fragilità non significa giustificare ciò che di sbagliato facciamo, ma riconoscere che esiste, che fa parte di noi, che va affrontata.
Non basta dirsi che “non lo faremo più”, perché sappiamo che, probabilmente, capiterà ancora. Ma possiamo lavorare ogni giorno affinché il nostro buono sia più forte dei nostri errori.
Forse è questa l'unica possibilità, forse è questo ciò che dovremmo dire ad un bimbo con ADHD. Forse non starà meglio subito ma si comporterà meglio per potersi sentire dalla parte dei buoni, a prescindere dal giudizio di chi ha in mano il gessetto.
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