Tutti, in misura diversa, portiamo delle maschere.
Non solo quelle che servono a proteggerci dagli altri, ma anche quelle che indossiamo per apparire “migliori” di ciò che siamo.
C’è la maschera dell’efficienza, quando mostriamo di avere tutto sotto controllo, quella della resistenza per sembrare affidabili o coerenti.
E tra le tante c’è, spesso, la maschera della bontà: il bisogno di apparire sempre gentili, disponibili, senza mai un’ombra di durezza o di conflitto.
Ma la verità è che nessuno di noi è solo una cosa per tutto il tempo senza essere anche il suo opposto. Ad esempio non si può essere “solo buoni”. In ciascuno esiste anche una vena di egoismo, di rabbia, di durezza. Non siamo santi, siamo umani. Eppure a molti piace credere di essere solo la parte “buona”.
Questa maschera, a lungo andare, diventa pesante. Costringe a temere il giudizio non solo per ciò che si mostra, ma anche per ciò che si nasconde. Temiamo che gli altri scoprano che non siamo poi così perfetti.
Eppure è proprio quando la maschera cade che si apre uno spazio di libertà.
Se non ho paura di sembrare "non buono", posso permettermi di sembrare semplicemente umano.
Liberarsi dalla maschera non significa diventare aggressivi o indifferenti, ma smettere di recitare un copione. È accettare di avere contraddizioni, limiti, momenti bui. È smettere di vivere costantemente sotto il peso del giudizio.
E la matematica?
Lo stesso accade a scuola, in particolare nella matematica.
Gli studenti spesso indossano la maschera del “bravo”: si sforzano di apparire competenti, di non sbagliare, di nascondere i propri limiti.
E qui va chiarito un punto: questa dinamica non dipende dal voto.
C’è chi pensa che eliminare i voti sia la soluzione per togliere la paura e la maschera. Non è così. Pur togliendo il voto, la maschera rimane: il timore del giudizio degli altri non sparisce. Perché non è il voto il vero problema ma l’illusione di dover sembrare perfetti.
Il voto, se ben compreso, non è un marchio sul valore della persona ma una semplice fotografia di ciò che in quel momento uno studente è in grado di restituire dopo un percorso di studio.
Per sentirsi liberi di studiare, i ragazzi non devono temere il giudizio.
Non devono pertanto anche dipendere dal giudizio positivo.
È un equilibrio sottile: sentirsi incoraggiati dallo sguardo dell’adulto senza che quello sguardo diventi una gabbia o un’aspettativa da compiacere.
E qui entrano in gioco quelle che, nel mio libro “Sassolini per contare", ho chiamato parole magiche, piccoli gesti: un “bravo” detto al momento giusto, un sorriso che riconosce un progresso, un incoraggiamento che dia fiducia. Le parole magiche non cancellano il giudizio ma lo trasformano da etichetta che schiaccia a conferma che motiva.
È questo che fa la differenza: non il togliere la valutazione, ma il dare forma, giorno dopo giorno, a una percezione positiva e unana di sé.
Ed è proprio perché non devono dimostrare nulla che i ragazzi si aprono, provano, osano. Non recitano più il ruolo dello studente perfetto: possono essere se stessi, lì, in quel momento. E in quello spazio, paradossalmente, imparano molto di più.
Il giudizio altrui è inevitabile, ma diventa meno potente quando smettiamo di indossare maschere. Accettando la nostra parte fragile ma anche quella meno “buona”, ci permettiamo di essere autentici.
Ed è questa autenticità che ci libera dall’ambizione della perfezione per noi e per i nostri figli. Non dobbiamo più spronarli a sembrare bravi ma ad essere curiosi, comprendere, crescere. Accettando il voto come parte del percorso e il nostro sguardo come incoraggiamento.
Perché alla fine, sono proprio quelle parole magiche dette nel momento giusto a dare la forza di togliersi la maschera e diventare davvero liberi di imparare.
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