Negli ultimi anni molti studi sullo sviluppo cognitivo e matematico ci hanno ricordato qualcosa che nella pratica educativa spesso percepiamo intuitivamente: i primi anni di scuola sono una finestra irripetibile.
È in questo tempo breve e densissimo che le funzioni esecutive si strutturano, che attenzione, memoria di lavoro e flessibilità iniziano a collaborare, che il pensiero matematico prende forma nelle sue basi più profonde. Il cervello, ancora incredibilmente plastico, assorbe stimoli, modelli e linguaggi che lasceranno tracce durature.
Dentro questa finestra il gioco ha un ruolo prezioso, perché il bambino impara naturalmente attraverso l’esplorazione, la simulazione, l’immaginazione. Il gioco sostiene le funzioni esecutive e apre le porte alla matematica con leggerezza, senza far percepire il peso della formalizzazione.
Tuttavia, ciò che la letteratura più solida ci invita a ricordare è che il gioco non può essere tutto. Funziona come porta d’ingresso, ma non può essere l’intero percorso. Se l’apprendimento matematico resta confinato nella sfera del ludico, rischiamo di creare un fraintendimento: l’idea che la matematica debba essere sempre piacevole, immediata, priva di sforzo.
Ma la matematica, già nei primi anni della primaria, è anche metodo, disciplina, struttura. E non è una sottrazione di gioia: è un’aggiunta di consapevolezza. È l’occasione di accompagnare il bambino a scoprire che esistono regole che organizzano il pensiero, che certe forme di precisione non tolgono creatività ma la orientano, che il rigore non spegne la curiosità ma le dà forma e direzione.
Chi osserva il mondo dell’editoria può intuire bene questo passaggio. I libri di matematica “divertente” per bambini piccoli sono ovunque, riempiono interi scaffali.
Salendo di età, questa proposta si assottiglia: già in quarta o quinta elementare le pubblicazioni si riducono, alle medie quasi spariscono. E non è un caso. Il gioco, pur essenziale all’inizio, non regge da solo la complessità crescente. Non accompagna il bambino a diventare un pensatore matematico: lo intrattiene, lo avvicina, ma non costruisce la struttura interna di cui la scuola ha bisogno.
E infatti, terminata la stagione dei giochi numerici, la narrativa editoriale salta direttamente agli adulti, ai libri di divulgazione leggera che raccontano curiosità e aneddoti. Sono letture piacevoli, ma non sostituiscono la costruzione di competenze matematiche solide.
La scuola, invece, chiede un’altra cosa. Chiede che il bambino si eserciti, che sviluppi una base stabile su cui poggeranno le competenze STEM di cui avrà bisogno nel suo futuro. Chiede che impari a sostenere uno sforzo proporzionato alla sua età, a distinguere quando il gioco serve per esplorare e quando serve un metodo per capire davvero. E oggi, in un mondo in cui l’intelligenza artificiale e la scienza dei dati ridisegnano il modo in cui pensiamo e lavoriamo, questa richiesta diventa ancora più urgente. La matematica non può essere una sequenza infinita di attività divertenti: deve diventare, passo dopo passo, un linguaggio che si impara a maneggiare, a rispettare, a usare come strumento di conoscenza.
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