Ricordo perfettamente il rumore del gessetto sulla lavagna. Quel suono secco, veloce, quasi impaziente. La maestra usciva dalla classe per andare dal preside o da una collega e lasciava a uno di noi il compito di dividere la lavagna in due: i buoni da una parte, i cattivi dall’altra. Bastava un’azione, una parola fuori posto, un gesto non controllato per finire nel lato sbagliato. E io, che ero diligente, che ci tenevo tanto ad essere dalla parte dei buoni, ero sempre dal lato giusto. Con le mie azioni esprimevo un comportamento controllato. Decidevo come volevo essere e lo ero. Quella linea di gesso separava non solo la classe, ma anche il modo in cui vedevamo noi stessi. Io ero una bimba che si comportava bene. Ben inserita nel contesto. Con il passare degli anni però, nonostante una timidezza non esasperata, una insicurezza addomesticabile, ho imparato a temere il gruppo, a non sopportare a lungo le comitive, non per ciò che avrei potuto fare per essere spostata nel grup...
In questo continuo braccio di ferro tra scuola e famiglie, tra docenti impreparati e genitori che non accettano i limiti dei propri figli, tra presidi che non difendono gli insegnanti che fanno adeguatamente il proprio lavoro e tutor che credono di aiutare ma spesso semplificano troppo, io non sto né da una parte né dall’altra. Io preferisco stare dalla parte dei ragazzi e se proprio devo preferisco giocare al tiro alla fune con loro. Li vedo soffocati da materiali didattici illeggibili, non spiegati, pensati solo per chi è già bravo. Li vedo in balia di famiglie che urlano invece di ascoltare, che si rifugiano dietro diagnosi senza accettare che a volte serve fermarsi per imparare meglio. Li vedo lasciati soli da chi dovrebbe guidarli e da chi, in buona fede, offre strumenti inadeguati perché non conosce davvero la materia. Io resto al loro fianco! Ma stare dalla parte dei ragazzi non significa giustificarli sempre. Significa aiutarli a capire quando non stanno lavora...